Sulla carta l’operazione si presentava interessante: realizzare uno spettacolo utilizzando come base drammaturgica i tre drammi neri di Shakespeare, “Riccardo III”, “Macbeth” ed “Otello”, per un "prodotto artistico" unico che, col titolo di “Trilogia del male” evidenziasse, appunto, il percorso di sangue e dannazione descritto dal bardo e che accomuna i protagonisti di questi tre capolavori.
Sarebbe perciò stato auspicabile, per evidenziare un giusto accomunamento tra opere e relativi personaggi, un robusto lavoro drammaturgico, che amalgamasse l’immenso materiale che compone le tre opere, una sorta di riscrittura, nella tradizione che vuole spesso operare sui classici quando si hanno obiettivi simili. Ma Laura Angiulli, ideatrice e regista di “Trilogia del Male”, in scena per quattro sere al Teatro San Ferdinando Di Napoli, nell’ambito della “sessione autunnale” del Napoli Teatro Festival 2011, ha optato per una sorta di patchwork drammaturgico in cui ha cucito, in un incomprensibile montaggio che ricorda le migliori soap televisive, le scene principali dei tre drammi. Va da se che il risultato non aggiunge nulla alla conoscenza o all’approfondimento delle tre opere, che anzi ne escono piuttosto impoverite e banalizzate, e, spesso, anche poco avvincenti, poiché il montaggio di cui sopra le priva di qualsivoglia pathos drammaturgico. Per quel che riguarda il cast, inoltre, la scelta ci sembra poco idonea al progetto, o meglio, sembra non finalizzata ad un risultato concreto e maturo, poiché in scena abbiamo visto molto raramente attori dai percorsi ed attitudini meno omogenei, cosicché, ancora una volta, ci sembra che a vincere sia stata una sorta di incertezza su quale strada intraprendere: quella dello spettacolo di prosa con attori robusti ed esperti, quella della sperimentazione (ci si perdoni il termine) , con attori che mettano in scena sé stessi, giocando con le differenze interpretative, lavoro che però necessiterebbe di una forte spinta sulla connotazione dei personaggi, o quella del saggio laboratoriale in cui giovani leve si testano attraverso una drammaturgia importante ed ancora lontana dalle loro effettive capacità. Purtroppo, però, la scelta non è stata fatta e sulla scena convive tutto ciò: Giovanni Battaglia (Riccardo III), Milvia Marigliano (Regina Margherita) e Stefano Iotti (Iago) risultano indubbiamente a loro agio con il verso Shakespeariano, e con loro Alessandra D’ Elia, seppure risulti un po’ eccessiva nell’esibire il proprio temperamento drammatico nel disegnare Lady Macbeth. Ma poco importa che, ad esempio, la Marigliano sia eccellente nel rendere la rabbia ed il dolore della regina Margherita, non avevamo bisogno di questo spettacolo per scoprirne le riconosciute capacità di attrice di razza, se accanto a lei e agli altri attori sopra menzionati ne troviamo altri che, ad esempio, pur essendo bravissimi in altri contesti, affrontano per la prima volta il grande autore britannico senza una dovuta preparazione specifica, e portano in scena il loro linguaggio teatrale ingiustificato in questo contesto. Poi c’è il terzo gruppo di interpreti, quello composto da giovani, a dir poco acerbi, che sono stati lanciati allo sbaraglio, e che purtroppo inevitabilmente soccombono al confronto con l’autore e con i più esperti colleghi. Ci fa comunque piacere menzionare Iolanda Piazza, un’Emilia più cattiva di quanto siamo abituati a vedere, ma assolutamente sincera, Irene Grasso, a cui una maggiore esperienza avrebbe consentito di approfondire un’ottima Desdemona, e che comunque, allo stato attuale, esce vincitrice dalla prova, nonostante il terribile e goffo costume in cui è sacrificata, Mirko Soldano, acerbissimo Macbeth, ma di ottima presenza scenica e di notevole temperamento drammatico, ed Ivano Schiavi, che riesce a non inciampare nel ruolo di Buckingham, nonostante sia più grande di lui quanto il costume che è costretto ad indossare. Un discorso, quello relativo ai costumi, che andrebbe ampliato e approfondito, poiché non ci è chiaro del perché vengano usati abiti d’epoca, parti di armature, ed abiti anni ’80, senza un reale motivo, né estetico né registico, a volte, come abbiamo già detto, anche fuori misura per gli stessi attori, forse una rigorosa semplicità avrebbe avuto maggiore attinenza. Uno spettacolo, questa “Trilogia del Male”, che, purtroppo, rappresenta una grande occasione perduta, poco interessante per chi ama o studia Shakespeare, e poco comprensibile e fruibile per chi vuole conoscerlo, con il risultato di non aver affascinato il pubblico, scarso e distratto. L’operazione, così come è ora, potrebbe essere stata maggiormente apprezzabile se fosse stata, come abbiamo già scritto, il risultato laboratoriale del percorso di studi di un gruppo di attori e studiosi dell’argomento, ma essendo uno spettacolo presentato con l’ufficialità e la risonanza di un Festival importante come il Napoli Teatro Festival, allora, a malincuore, dobbiamo esprimere il nostro modesto dissenso.
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